La produzione di Claudio Monteverdi testimonia chiaramente quanto fosse labile, nel Barocco italiano, il confine fra musica sacra e musica profana. Fra questi due ambiti esisteva un interscambio continuo, che si manifestava sia nei travestimenti (adattamenti di testi sacri a composizioni originariamente profane e viceversa) sia nell’adozione, per composizioni di destinazione sacra, dello stile drammatico, affettuoso o brillante proprio della musica profana.
Il mottetto Laudate Dominum, pubblicato nella Selva morale e spirituale, testimonia appunto il carattere brillante e spettacolare del barocco sacro veneziano. Il primo periodo barocco conobbe una straordinaria fioritura del repertorio vocale virtuosistico. Sappiamo che un pubblico avido di godere della musica affollava spesso le funzioni liturgiche, e non sono pochi i testimoni dell’epoca scandalizzati dalla secolarizzazione delle cerimonie sacre, la musica delle quali si distingueva sempre meno dalla musica profana. Questo mottetto, il cui testo è tratto dal gioioso salmo 150, è composto su un basso ostinato di ciaccona; giocato sull’imitazione vocale del suono delle trombe, della cetra, dei timpani e dei cembali, si conclude con una sezione composta nello stile nuovo, ornato.
Il Lamento di Arianna nasce invece nel contesto, profano, del teatro: si tratta infatti dell’unica porzione superstite dell’opera Arianna (1608) ed è composto nello stile della seconda pratica. Qui la musica si pone al servizio del testo e lo sposa completamente, nello stile declamatorio ed affettuoso che ha per fine la verità dell’espressione. Allo stesso Monteverdi si deve un riadattamento sacro di questo componimento, che compare nella Selva morale e spirituale come Pianto della Madonna.
Lo Stabat Mater è una delle opere più celebri di Giovanni Battista Pergolesi (di cui ricorre quest’anno il 300° anniversario della nascita), nonché un capolavoro del Settecento italiano. Il compositore vi esprime una cantabilità desolata, una vena espressiva intensissima. Eppure è interessante notare che anche in quest’opera vi è qualche incursione nello stile più leggero dell’opera buffa (in particolare nell’aria Quae moerebat et dolebat, nel duetto Inflammatus et accensus), pur adattato sapientemente dall’autore all’affettuosità dolorosa del testo.
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